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John Wainwright

Stato di fermo

Traduzione di Sabrina Campolongo

Il romanzo noir da cui sono stati tratti i film
‘Garde à vue’ e ‘Under Suspicion’

Narrativa
In libreria

182 pagg.
ISBN: 9788890926358

 

15,00 euro
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(al prezzo scontato di 13,00 euro)



 

L’Autore

Il primo capitolo

 

Rassegna stampa

Mangialibri
Valerio Calzolaio
Stato di fermo
Dicembre 2015

(leggi)

 

 

Altri titoli in catalogo

Anatomia di una rivolta

 

 

 

 

 

In una stazione di polizia dello Yorkshire, il detective Lyle torchia il mesto funzionario pubblico Barker. La posta in gioco è alta, vale la vita o la morte della prossima piccola vittima.
George Barker, dall’aspetto insignificante, è accusato di avere stuprato e ucciso tre bambine: riconducibile alla scena di tutti e tre gli omicidi, è fortemente indiziato per una serie di omissioni e buchi nelle sue deposizioni. L’obiettivo del detective Lyle è incastrarlo nella morsa di una prova definitiva, di un riscontro oggettivo, e per riuscirci deve approfittare del breve lasso di tempo consentitogli dallo ‘stato di fermo’ del sospettato.

Questo romanzo di John Wainwright, per la notevole capacità di creare tensione, ha suscitato l’interesse del cinema. Ne sono stati tratti due film: il primo in Francia, interpretato da Lino Ventura e Michel Serrault, Garde à vue; il secondo negli Stati Uniti, con Gene Hackman e Morgan Freeman, Under Suspicion.

"Comprimete un matrimonio – gli stress, gli sforzi, il dare e avere di un lungo matrimonio – nel breve tratto di tempo di qualche ora e avrete, in pratica, gli ingredienti di un interrogatorio di successo (o di insuccesso). All’inizio c’è una fusione di menti. All’apparenza un reciproco rispetto. Poi con il passare degli anni (con il passare delle ore) una personalità dominante emerge, è accettata e il matrimonio diventa completo… e l’interrogatorio diventa un interrogatorio. Non c’è ritorno. Non c’è ‘ricominciamo da capo’. La relazione a questo punto è inalterabile; c’è una tacita pretesa da una parte e una rassegnata accettazione dall’altra.
Molti, per altri versi, ottimi poliziotti restano ‘scapoli’, almeno per quel che concerne l’interrogatorio, per tutta la loro carriera in polizia. Possono fare domande, possono raccogliere prove, possono investigare un crimine. Ma non sapranno mai interrogare.
Lyle sapeva interrogare.
E mise tacitamente il marchio del suo predominio su Barker con quella domanda, posta con tono quasi indifferente:«Ora… mi dica cosa faceva nel boschetto.»"

 

Capitolo 1
La stanza. Dobbiamo cominciare con il descrivere la stanza, perché in effetti la stanza è il palcoscenico sopra il quale si metterà in scena l’intero dramma. Il palco, e più del palco; è anche il fondale, le quinte e la scena. E la porta è la tenda che si apre, permettendo a uno degli attori protagonisti di entrare al momento giusto e quindi di recitare le sue battute senza suggerimenti e con puro tempismo.
Ma una stanza è evidentemente parte di un edificio – una scatola all’interno di quell’edificio; e una stanza riunisce in sé un po’ dell’atmosfera dell’edificio di cui è parte.
L’edificio è una stazione di polizia.
È bizzarro, ma comprensibile, che le stazioni di polizia abbiano un’atmosfera tutta particolare. Persino gli ufficiali di polizia, per i quali esse sono semplicemente il luogo di lavoro, afferrano un alito di questa aura. È, si suppone, il sedimento di passate e incalcolabili colpe; il profumo di illegalità e la sottile emanazione del peccato che in qualche modo è penetrato nella pietra e nei pannelli di legno dei locali. Può produrre una sensazione di disagio. Un lieve brivido di colpa, avvertito persino dall’innocente.
Nessuna stazione di polizia è mai un luogo felice. Rischiaratela con ettari di vetrate, illuminatela con lo splendore dei neon, mettetele il parquet e tenetelo pulito come uno specchio, ma tutto questo le darà solo l’apparenza. Quel che è difficile descrivere continuerà ad aleggiare sotto la vernice. Per i fuorilegge è sempre la ‘casa dell’uomo nero’ e l’espressione è particolarmente centrata.
La stanza, quindi, era parte di una stazione di polizia.
Era una di quelle stanze multifunzione che sanno di errore progettuale; come se l’architetto, o forse il costruttore, avesse fatto male i calcoli e si fosse ritrovato con un’area di superficie non specificatamente destinata a uno scopo preciso. Era più piccola della Sala Identificazioni, ma decisamente più grande di ognuna delle salette per gli interrogatori progettate a quello scopo. La sua misura si avvicinava a quella del tinello di un appartamento in un quartiere piccolo-borghese. Allo sguardo risultava un cubo perfetto; la lunghezza delle pareti era né più né meno l’altezza. C’erano una porta e una finestra. La porta aveva l’aria di essere solida e sicura. La finestra era alta, stretta in proporzione e suddivisa a riquadri; le ultime tre file erano di vetro smerigliato.
Un doppio termosifone sotto la finestra cacciava abbastanza caldo da ammorbidire il gelo, ma senza arrivare a produrre un reale o confortevole tepore. C’era un lavandino in un angolo, completo di manopole per l’acqua calda e fredda, un piccolo specchio e un binario cromato sopra il quale era ripiegato un asciugamano. La luce arrivava da due tubi al neon gemelli; un’aspra luce bluastra, che sembrava eliminare le ombre e allo stesso tempo prosciugare la stanza di qualunque colore potesse avere. I muri erano dipinti a tempera. Finitura vellutata. Color sabbia, forse? Sì, a un esame più attento, sabbia. Ma nel bagliore fluorescente, anche a un metro di distanza, un grigio stranamente opaco. Il pavimento era coperto con linoleum ‘marrone governativo’, il colore del cioccolato amaro, resistente e lucidato a una brillantezza di specchio appannato.
La stanza era scarsamente ammobiliata. Solo il minimo essenziale occupava quella che appariva come una sovrabbondanza di pavimento. C’era un tavolo; piano lucido, graffiato e macchiato d’inchiostro su un angolo, con un cassetto laterale. Il tavolo era posizionato, quasi geometricamente, sotto i neon. Sulla superficie del tavolo c’era un piccolo, economico posacenere blu con le parole “Player’s Navy Cut” impresse attorno alla circonferenza. Una sedia di tela a tubolari d’acciaio era posizionata a ogni capo del tavolo, e una terza sedia simile era appoggiata vicino al muro, accanto alla porta.
Questa, quindi, era la stanza. Il palcoscenico. La porzione della stazione di polizia che, al momento, era riservata a un confronto all’ultimo sangue tra un sospettato e il suo inquisitore. Un’arena in cui, entro le regole della legge e della giustizia inglese, era stato organizzato un duello.
La porta si aprì e un agente in uniforme spinse il sospettato nella stanza. L’agente indicò il tavolo con un brusco cenno della mano. Il sospettato abbassò appena il capo in segno di comprensione, quindi si sedette su una delle sedie in tela e acciaio.
L’agente chiuse la porta, spostò la sedia che era vicina alla porta pochi centimetri più lontano dal muro, quindi si sedette a sua volta.
Il sospettato mormorò: «Potrei…?» Quindi si schiarì la gola, e chiese: «Potrei fumare?»
L’agente disse: «Perché no?»
Erano esattamente le 22.30.

 

L’Autore
John Wainwright (1921-1995) è stato per vent’anni agente di polizia nello Yorkshire inglese, prima di diventare scrittore a tempo pieno. Autore di romanzi police procedural, alla narrativa poliziesca ha affiancato noir, gialli classici e thriller.
Tra le opere più famose: The Crystallized Carbon Pig (1966), Cause for a Killing (1974), Square Dance (1975), Do Nothin’ till You Hear from Me (1977), Cul-de-sac (1984), Portrait in Shadows (1986).

Sabrina Campolongo è scrittrice e traduttrice. Ha pubblicato: Balene Bianche (Michele Di Salvo 2007), Il cerchio imperfetto (Creativa Edizioni, 2008), Il muro dell’apparenza (Historica Edizioni, 2008), Unessential Dublin (Historica Edizioni, 2010). Scrive recensioni letterarie sulla rivista Paginauno.

 

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